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GIORGIO CINGOLANI
Regista, Sceneggiatore e Antropologo
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DANCALIA 1997

PROGETTI ANTROPOLOGICI
DESERTO DELLA DANCALIA (ETIOPIA) 1997
Nel 1997 ho potuto partecipare in qualità di studente in fase di preparazione della sua tesi di laurea in Storia delle religioni presso l'Università di Lettere e Filosofia di Macerata, al progetto di ricerca “Rift Valley 2000. Dancalia expedition 1997” a cura dell’Ass. Culturale Argonauti explorers in collaborazione con Università di geologia di Pisa e l’associazione “Vulcano esplorazioni” specializzata nel monitoraggio dei vulcani attivi nel mondo. Si è trattato di un progetto di esplorazione e indagine antropologica, vulcanologica e geologica a piedi della regione desertica della Dancalia etiopica. Obiettivi del viaggio di ricerca: contatto conoscitivo e convivenza quotidiana con la popolazione nomado-pastorale degli AFAR, realizzazione di un documentario (regista Maurizio Leigheb) sulla spedizione trasmesso dalla RAI e dalla TSI (rete svizzera italiana). Il percorso inziato ad Addis Abeba si è sviluppato interamente nel deserto della Dancalia per circa un mese. Il nostro gruppo ha soggiornato nei villaggi afar ed è poi stato scortato da una ventina di Afar armati di kalashnikov per arrivare sulla cima del vulcano Erta Ale che si erge ad una altezza di 613 mt all'interno della Rift Valley. È uno dei quattro vulcani che, nel mondo, permettono l'osservazione dello straordinario e spettacolare fenomeno del lago di lava permanente. La faglia che attraversa la depressione, che marca l'allontanamento della placca araba dalla placca africana, permette la fuoriuscita di magma, fenomeno che normalmente avviene solo nelle dorsali oceaniche, in mare aperto e a grande profondità, quindi molto più difficilmente osservabile.
I dati etnografici che ho potuto raccogliere durante il viaggio sono stati utilizzati nella realizzazione della mia tesi di laurea di carattere antropologico all’Università di Macerata sotto la guida della Prof.ssa Ileana Chirassi Colombo. Il titolo della mia tesi di laurea: “La maschera dell’identità: modelli simbolici di costruzione e resistenza della comunità Afar”.
Grazie alla mia ricerca ho avuto modo di collaborare successivamente con il vulcanologo Luca Lupi alla stesura della parte antropologica dei due volumi "Dancalia, l'esplorazione dell'Afar. Un'avventura italiana" (2009) realizzati con il sostegno della Società Geografica Italiana, fornendo dati e interpretazioni antropologiche raccolte nella mia tesi di laurea.


Galleria fotografica
Foto di Giorgio Cingolani, Luca Lupi, Michele Squeri
IL POPOLO AFAR
Collocazione geografica
Gli Afar, circa 600.000 individui, abitano la Dancalia, una regione di circa 150.000 chilometri quadrati di superficie a cavallo di tre stati, l’Etiopia, l’Eritrea, e Djibouti. Quest’area Afar ha la configurazione approssimativa di un triangolo ed è così delimitata: a ovest dal grande altipiano del Tigray con la catena montuosa del Sàmhara; ad est dal Mar Rosso partendo da Massaua arrivando a sud fino al golfo di Tagiùra (Djibouti); ed a sud dall’alta valle del fiume Awash . Alcuni sultani Afar hanno prospettato negli anni passati una riunificazione di questi territori in una unica grande terra: la Grande Afaria. Le relazioni del popolo Afar con le popolazioni circostanti sono segnate da una continua ostilità. Essi confinano, a sud con gli Issa Somali e con gli Ittu e Enia Galla, a ovest con i Wallo, Yaju e Raya Galla e a nord-est con i Saho. Oltre alla vasta depressione centrale desertica costellata da vulcani e laghi salati, e in gran parte posta 120 m sotto il livello del mare e abitata da tribù nomado-pastorali, questa terra comprende anche le pianure della costa, le zone montuose delle Alpi Dancale e le fertili terre lungo il basso corso del fiume Awash dove si possono trovare insediamenti stabili o semi-nomadici su piccola scala e dove è praticata anche l’agricoltura.

Origini del popolo e etimologia dei termini Afar e Dancali
Il nome “Dancali” (Danakìl in arabo) apparve per la prima volta nel XIII secolo negli scritti del geografo arabo Ibn Said, ed è normalmente usato dagli Arabi per designare questa popolazione1. Gli etiopi cristiani li chiamano Adal, mentre i Somali li denominano con il termine Oda àli. Ma gli abitanti della regione chiamano se stessi Afar. Il nome Afar è conosciuto, in occidente, solo dal XIX secolo utilizzato da Léo Reinisch nel libro Die Afar Sprache nel 1885. In tempi antichi la Dancalia fu popolata in seguito ad una serie di immigrazioni provenienti dalla penisola arabica che si estesero fino alle coste dell'attuale Somalia. Molte tribù afar rivendicano una origine araba (ma non necessariamente qurayshita) specialmente dopo l’islamizzazione della regione. Secondo la tradizione abissina, le famiglie immigrate discendevano da quelle di Ophir e di Hebàl di origine semitica, che si stabilirono rispettivamente a nord e a sud del Golfo di Tagiura entrando in contatto con le popolazioni camitiche già presenti sul posto. Il nome “Afar” deriverebbe dalla corruzione fonetica di Ophir. Varie etimologie comunque, sono state ipotizzate sia per “Dancali” che per “Afar”. L’ipotesi più probabile è che la parola Dancali sia in origine un nome tribale che potrebbe derivare dalla tribù degli Ankala siti nella penisola di Buri (Anka = villaggio sulla costa e kili = gente )
La storica divisione in classi
Gli Afar si dividono in due classi principali: gli Asaimara (Assa Iammara o Uomini Rossi) "nobili" e gli Adoimara (Ado Iammara o Uomini Bianchi) "comuni". Questa suddivisione è principalmente politica e non risale a tempi antichi. Nacque infatti, verso gli inizi del XVIII secolo, dovuta probabilmente a movimenti migratori verso migliori pascoli e territori in quella che era una lotta per il controllo della valle dell’Awash. Essi non sono sempre territorialmente separati e i maggiori gruppi tribali comprendono un misto di entrambi. In genere i gruppi Adoimara che vivono tra gli Asoimara pagano una tassa, ma si trovano anche molte tribù Adoimara autonome o che tendono a liberarsi da questo onere e ad acquisire uno status indipendente. Nei gruppi misti, gli Asoimara detengono i diritti territoriali acquisiti come capi dei gruppi di parentela, mentre gli Adoimara possiedono un proprio bestiame e hanno diritto di pascolo sulle terre dei loro padroni. Le confuse tradizioni identificherebbero gli Asaimara con quei gruppi, detti degli Heblei, stabilitisi a sud del golfo di Tagiura, che, in seguito a varie ondate di immigrazioni dal Golfo di Aden e dal Golfo Persico, dovettero spostarsi più a nord, nella zona di Tagiura e ad ovest dell’Awash, venendo a contatto con popolazioni abissine alle pendici dell’altopiano. Questo incrocio produsse una differenziazione dagli Afar che occupavano parte di queste terre (secondo la divisione pattuita in passato) e che avevano assunto il nome di Adoimara (Uomini bianchi) per testimoniare la loro origine da genti di razza bianca (arabi); questa differenziazione valse loro l’appellativo di Asaimara (Uomini Rossi), (per distinzione dai neri camitici).  Più tardi, la guerra condotta dal sempre più potente Regno di Adal contro l’Impero Etiopico, provocò un movimento verso il nord di genti somale che spinsero anche gli Asaimara nella stessa direzione. Essi giovandosi del prestigio delle vittorie conseguite dal Regno di Adal, occuparono le terre degli Afar e ne divennero la nobiltà dominatrice. Secondo la tradizione dei Damoheita (tribù Afar dominante)la genealogia degli Asoimara deriverebbe da un comune antenato, Har-El-Mass, un’arabo dello Yemen che sbarcato a Dammaho, nei pressi di Tagiura dove dominavano gli Heblei, salì su di un albero per esaminare il paese. Gli abitanti del luogo, vestiti solo di pelli di capra e montone, scortolo tra i rami dell’albero e colpiti dalla bellezza dei suoi abiti di seta lo esortarono a scendere giù. Ma Har-El-mass acconsentì solo a condizione di essere accettato come loro capo. I Damoheita (da Dammaho) discendono dal suo matrimonio con una donna della locale popolazione.
La divisione in tribù e le leggi interne ad esse
Sia gli Asaimara che gli Adoimara comprendono una grande varietà di tribù e confederazioni tribali. Tra gli Asaimara, quella dei Damoheita è considerata la più nobile tra tutte le altre per le ragioni sopra dette, ma importante è anche quella dei Moddaito nell’Aussa e nel Teru. Tra gli Adoimara, i Dahimela sono la tribù più numerosa e per questo motivo è riuscita a mantenere la propria autonomia dagli Asaimara.  I Dahimela si dividono in tre gruppi e occupano per la maggior parte i territori della Dancalia settentrionale, mentre il resto è sparso in territorio etiope. Le loro attività principali sono la pastorizia e l’escavazione del sale in blocchi che poi viene venduto nel mercato di Enderta in Abissinia. I Damoheita sono ostili nei confronti dei Dahimela a causa della loro non ortodossa adesione ai precetti dell’Islam. Altra Tribù è quella degli Hedarem o Hadermo divisi in due rami principali (Data Hegghi e Assa Hegghi) a loro volta suddivisi in altre fazioni. Provenienti dallo Hadramaut, essi sono sparsi un po’ dappertutto, sull’altipiano di Mabra, nel Biru, presso l’Erta Ale e sulla costa. Così sparsi non hanno costituito un proprio agglomerato, non hanno un capo comune e dipendono dalle tribù maggiori cui sono soggetti. Alcuni sono alle dipendenze dei Damoheita del Biru, altri a quelle dei Dahimela. Altre tribù importanti sono quella degli Ancala sul versante occidentale dei monti Buri e quella dei Ghedimto che abitano la zona intorno al lago Afrera, i monti Data Ali e la piana di Illidabo. La tribù è un’unità politica, territoriale, ha una struttura di lignaggio agnatizio e raggruppa in maniera sciolta gruppi di parentela che hanno funzioni politiche. Ogni tribù è formata da varie famiglie dette cabila, ognuna in possesso di complicati diritti di territorio, invisibili nel paesaggio, ma invalicabili senza permessi. I poteri del capo della tribù (dardar) sono vaghi e limitati da un’assemblea tribale e la funzione di capo e vice capo (ras) sono a volte ereditari, a volte ad elezione. Per quanto riguarda l’aspetto delle sanzioni legali, mancando la scrittura si segue la consuetudine. La tribù è la principale giurisdizione ma può essere scavalcata da alleanze tribali e dai sultanati. Pena più comune per i reati minori è l’esilio temporaneo o perenne. Per reati più gravi, come l’omicidio, vige la legge del taglione, qualora non ci si accontenti di una riparazione calcolata in un certo numero di capre o cammelli. Stessa compensazione in capi di bestiame è inflitta nei casi di adulterio che però devono essere colti in flagranza dal marito e due testimoni.
Le faide e la guerra come “modus vivendi”
In Dancalia la faida è un modo di vita; la guerra è una realtà sempre presente da millenni. La particolarissima collocazione geografica pone la Dancalia come area naturale di scontro tra il mondo religioso arabo-mussulmano e quello africano-copto. Inevitabilmente i Dancali si sono trovati sempre in mezzo a queste guerre religiose e territoriali, ed hanno così assimilato nella vita di tutti i giorni la violenza che origina un’area di frontiera come questa. Tutto questo clima di guerra è ulteriormente aggravato dalle proibitive condizioni del territorio e del clima. Infatti ancora oggi nelle caldissime distese di lava e di sale della Dancalia si combatte per difendere le pochissime sorgenti di acqua disponibili. Ecco che allora le prime spedizioni europee che nel diciannovesimo secolo cercarono di attraversare la Dancalia (quella svizzera del Munzinger 1857, quelle italiane del Giulietti 1881 e del Bianchi 1884) furono trucidate dagli Afar, e pagarono a caro prezzo l’ingresso nei territori Afar. Le faide famigliari a volte scaturite da inezie, durano decenni. Gli uomini, portano molti segni del proprio valore dimostrato in guerra uccidendo nemici. Chi ritorna all’accampamento senza aver ucciso viene umiliato dall’intera tribù vendendo i suoi abiti e insudiciando i suoi capelli con escrementi. Ogni vittima è castrata e ciò costituisce la principale prova del valore di un guerriero il cui status dipende dal numero di trofei posseduti. L. Nesbit il solo fino allora (1928) ad aver attraversato incolume tutta la piana dancala, ne tracciò un ritratto terribile:<<sono pronti ad ammazzare ogni estraneo che incontrano>>. Il giovane esploratore inglese W. Thesinger, che nel 1933 si mise in viaggio per esplorare l’Etiopia, li descrisse così: <<cacciatori di teste che collezionano testicoli invece di teste>>. Una penna è messa tra i capelli e portata per dodici mesi dopo aver compiuto il primo omicidio, mentre delle strisce di pelle di capra sono legati alle gambe e alle braccia. Dieci omicidi sono testimoniati da un bracciale d’acciaio. Inoltre i guerrieri Afar portano al collo degli amuleti, che in genere sono dei versetti del Corano racchiusi in un sacchettino di cuoio. L’arma caratteristica degli Afar è il micidiale Jilè, coltello ricurvo a doppia lama, portato sul ventre e mai abbandonato. Ad esso si affiancano oggi i micidiali fucili-mitragliatori AK-47 (Kalashnikov) che hanno sostituito ormai la tradizionale lancia (mharu), alla quale si attaccavano dei fili di ottone a testimoniare le vittime che aveva causato, e lo scudo d’ippopotamo ormai inutile contro i proiettili. La guerra è spesso condotta a scopo di razzia, e in passato la cattura di nemici alimentava un fiorente commercio di schiavi che erano venduti agli Arabi negli empori di Bèilul e Rahèita. Per meglio capire la mentalità Afar vale la pena citare l’usanza del kwosso (palla): un centinaio di giovani guerrieri rincorrono una palla di cuoio di capra senza regole precise, colpendosi duramente, con ogni forma di violenza fisica pur di prevaricare l’avversario. Ovviamente il gioco sfocia spessissimo in faide o vendette di sangue con vari morti.
Usanze e costumi
Gli Afar nomadi hanno grosse greggi di pecore e capre, e mandrie di cammelli usati per il trasporto delle abitazioni e altro materiale e generalmente non cavalcati. La coltivazione è possibile solo nella Dancalia meridionale lungo il corso dell’Awash. I due più fertili distretti sono quelli di Badu e Aussa, sede anche dei due principali sultanati insieme a quello di Tagiura. I villaggi sono composti da varie decine di burra (tipiche capanne di legni, stuoie di pelli) disposte apparentemente senza un criterio preciso con qualche recinto di arbusti per gli armenti. Gli Afar in genere non si fermano nella solita località per più di 3 mesi; pochissimi sono i villaggi stanziali. Durante gli spostamenti gli scheletri di legno delle tipiche capanne e le stuoie delle pareti vengono legate e trasportate a dorso di cammelli. I nomadi vivono quasi esclusivamente di latte di cammello e carne. Molto apprezzata è una concozione di burro semifluido, pepe rosso mescolati in latte coagulato. Si fa molto uso anche di un bevanda alcolica, la duma, estratta dalle palme dum. Quasi tutto il lavoro quotidiano negli accampamenti nomadi è svolto dalle donne. Esse devono costruire le capanne, preparare il cibo, fare il burro, mungere il latte, intrecciare stuoie e percorrere anche molti chilometri per procurare l’acqua e la legna necessarie. Le greggi sono custodite generalmente dai ragazzi aiutati in ciò dagli uomini, i quali però, per lo più combattono e pianificano raids contro tribù ostili vicine. Per quanto riguarda l’abbigliamento, le donne Afar, impegnate nei lavori domestici quotidiani, indossano solo una fascia lunga di cotone scuro il mushal arabo attorno ai fianchi lasciando il seno scoperto, ma spesso aggiungono una specie di camicione dello stesso tessuto (colorato sfarzosamente nelle grandi solennità). Prima di raggiungere la pubertà non è mai permessa la nudità e ogni ragazza indossa la sua camicetta colorata. Gli uomini portano anch’essi una fascia di tela (in origine bianca) ai fianchi e sandali ai piedi, ma i capi fanno anche sfoggio di manti abissini e galla o panciotti arabi. Attualmente i prodotti indiani giapponesi e anche europei tendono a modificare l’abbigliamento Afar. Grande importanza è attribuita all’acconciatura sia negli uomini che nelle donne. Gli Afar hanno una folta capigliatura riccioluta a forma di casco e rasata alla nuca. Verso i cinque o sei anni viene praticata sui bambini una rasatura circolare sopra la testa che lascia un’anello di capigliatura tutto intorno. Una vera cerimonia di iniziazione (darre-k kalti, rasatura del collo) verso l’età della pubertà, segna il momento a partire dal quale si lasciano ricrescere i capelli del ragazzo che così diviene un guerriero. L’opulenta capigliatura degli adulti è segno di virilità.  I capelli sono imburrati frequentemente acquisendo così una certa lucentezza e proteggendoli dal sole. Anche le ragazze nubili portano la parte superiore della testa rasata finché i capelli ricrescono facendo scomparire la tonsura. Dopo il matrimonio le donne Afar cingono le loro trecce con una fascia di stoffa nera. Le donne amano adornarsi con collane di perline, anelli e bracciali di ottone ai polsi e alle caviglie. Ornamento nuziale sono i chèrda, anelli di bronzo molto pesanti portati alle caviglie e i firantu, anelli d’argento alla narice sinistra che viene forata fin dalla prima infanzia. Molto diffuso è l’uso di scarificazioni a scopo decorativo così come la limatura dei denti 2. Tra gli Afar è praticata la circoncisione per i ragazzi e l’escissione e l’infibulazione per le ragazze. I ragazzi vengono circoncisi tra gli otto e i dodici anni durante una cerimonia. A compiere questa operazione è lo zio paterno e il ragazzo deve cercare di resistere al dolore per mostrarsi degno di divenire uomo. La ferita è disinfettata violentemente con una mistura di latte agro, sale e peperoncino, poi si raccoglie il sangue mescolato al latte e viene fatto bere al ragazzo mentre del peperoncino gli è gettato negli occhi. Tutto ciò ha lo scopo di renderlo coraggioso di fronte al pericolo e alla sofferenza. Al termine della cerimonia viene effettuato un sacrificio animale, danze e giochi. Le bambine sono escisse e cucite alla loro nascita o dopo pochi giorni ad opera di una vecchia donna specializzata che prima taglia loro le piccole labbra e poi effettua una sutura. In una società fortemente patriarcale come quella Afar, questo è un sistema per sottomettere ancor più la donna all’uomo che con queste operazioni impone il proprio dominio anche psicologicamente e inoltre si preserva, in maniera brutale, la verginità della propria sposa, privandola così della sua libertà di donna (notoriamente pratiche come l’infibulazione o la cloritichedmia eliminano qualsiasi stimolo di piacere sessuale). Una donna può sposarsi a partire dai suoi dieci anni, mentre un uomo può farlo solo dopo aver ucciso. Sono permesse quattro mogli, come secondo la legge coranica e il primo matrimonio deve essere preferibilmente con la figlia della sua zia paterna o con un’altra cugina. Esistono tra gli Afar, sia il levirato che il sororato ed è ammessa la poligamia. Il matrimonio si effettua tramite un contratto tra il padre della sposa e il futuro sposo e per celebrarlo è preferibile una notte di luna piena e un periodo dell’anno giudicato astrologicamente favorevole all’unione dei due sposi. Lo sposo deve corrispondere una specie di dote alla famiglia della donna che intende sposare per ricompensarla della perdita di essa. Questo pagamento può essere effettuato sia in capi di bestiame che in servizi o altri beni. Le nozze sono precedute da sacrifici animali e si svolgono alla presenza di qualcuno capace di leggere il Corano.  Quando la donna è incinta continua a lavorare normalmente fino al momento in cui inizia il travaglio. Il parto ha luogo nella capanna e non vi assiste alcun uomo. A causa della cucitura effettuata quando era bambina, si è costretti a intervenire con un coltello per permettere al bambino di nascere(spesso inoltre, dopo il primo rapporto sessuale, viene ripraticata, se necessaria, una nuova sutura). La nascita di un maschio è accolta con grande gioia e festeggiamenti, mentre si mostra indifferenza alla nascita di una femmina. Alla nascita il nuovo nato riceve un nome che viene preceduto da quello del padre. Inoltre gli sono donate due capre giovani: una da parte della madre e una da parte del padre. Alla prima viene attaccato al collo un pezzo del cordone ombelicale per riconoscerla.
Gli Afar e la religione
Gli Afar sono musulmani. La forma del sufismo è quella più seguita (nelle città della costa gli Afar sono affiliati alla confraternita dei Qadiriyya, fortemente presente). L’Islam è penetrato molto presto nel Corno d’Africa (a partire dal VII secolo) grazie al fervido commercio che già da secoli fioriva tra le due coste del Mar Rosso. Ma tra gli Afar, l'Islam di è diffuso in maniera molto differente e se sulla costa e nelle città esso è seguito più strettamente (con prevalenza della scuola Shafi’ita), tra i nomadi del deserto l’osservanza dei precetti islamici è largamente insufficiente e ciò è da attribuire principalmente alla sopravvivenza della pratica della religione cuscitica pre-islamica. Tra gli Afar, pochi sanno leggere il Corano e le preghiere sono spesso dimenticate. Il Ramadan non viene rispettato mentre poco praticato è il pellegrinaggio. Circoncisioni, matrimoni, cerimonie funebri e altri riti praticati, sono sempre accompagnati da preghiere musulmane ma affiancate a più antiche usanze autoctone. Infatti i sacrifici animali praticati nelle più varie circostanze, l’uso di legare strisce di pelle degli animali sgozzati agli arti e l’uso di macchiarsi con il loro sangue in varie cerimonie sono sicuramente anteriori all’islamizzazione di questa regione. La religione cuscitica del Dio del cielo Wak\Zar\Figu (figura centrale assimilabile ad Allah), padre dell’universo, non è stata ancora assorbita pienamente nell’Islam. I santuari sulle cime dei monti Ayelu e Guraali sono meta di pellegrinaggi da Aussa per compiere sacrifici dopo le piogge, pregare per prosperità e benessere e per il successo in guerra. Altre usanze che sopravvivono, ma ormai fortemente influenzate dall’Islam, sono quelle legate alle pratiche di stregoneria per la cura di malattie e l’uso di amuleti. Ma la stregoneria è spesso usata a scopi malefici contro un nemico, ad esempio pugnalando una sua impronta, mescolandone la sabbia con delle erbe in un vaso e disperdendola poi al vento recitando alcune formule magiche. In questo caso egli diventerà zoppo. Esiste anche una stregoneria amorosa, una per evitare di avere figli e una per quelle medicazioni che richiedono l’uso del fuoco, di amuleti e di preghiere rituali. Il fuoco è particolarmente adorato dagli Afar e viene adoperato per svariate funzioni. Infatti, oltre ad essere impiegato per curare molte malattie esso è anche utilizzato come test della verità. Una persona per provare la propria innocenza o la veridicità di quanto sostiene deve superare la prova del fuoco senza rimanere ustionato, cosa che non accade mai a chi decide di sottoporvisi. Altro carattere della religione cuscitica tradizionale è la credenza nei Jinn, spiritelli che aleggiano in angoli vuoti e oscuri, pronti a colpire capricciosamente i passanti. In Etiopia essi sono noti come Zar e danno luogo a quelle forme di possessione istituzionalizzate (soprattutto in città)che colpiscono talvolta anche i giovani cammellieri. Nei casi di possessione da parte di questi demoni si ricorre, sia ai sacrifici animali che ad una sorta di esorcismo basato sull’azione di amuleti coranici e sulla lettura di alcuni versetti del Corano. Alla fine il demone acconsentirà ad uscire dal corpo del posseduto dettando delle condizioni quali, ad esempio, il sacrificio di un animale. Altra caratteristica della tradizione cuscitica esistente ancora in varie forme di sincretismo, è la danza del Jenile che ha come scopo la divinazione. I jenile sono una specie di profeti che sotto l’influenza della danza rispondono alle domande che vengono poste loro facendo previsioni su accadimenti e azioni future legate all’esito di una guerra o della transumanza o all’arrivo di piogge. Accanto a questo tipo di divinazione si affianca spesso, una divinazione tramite segni astrologici e geomantici usati ad esempio, per la scelta del periodo astralmente favorevole ad un progetto di matrimonio. Ma questa forma di vaticinazione non ha né il prestigio, né l’importanza di quella che riguarda la guerra o la pioggia. I Jenile non rivestono una posizione speciale all’interno della tribù essendo uomini o donne comuni che all’occorrenza assumono questo ruolo. Secondo la descrizione fatta dall’esploratore inglese W. Thesiger, di una di queste cerimonie presso gli Asaimara, i danzatori si dispongono in un circolo chiuso cantando e battendo ritmicamente le mani e convocando il Jenile che entra e si pone al centro del cerchio sopra una pelle di pecora e coperto con un mantello fino agli occhi. I danzatori aumentano il ritmo ondeggiando verso il profeta sempre più velocemente fino a raggiungere un culmine e a quel punto il Jenile fa la sua profezia. Gli Afar dedicano particolare importanza ai loro riti di sepoltura, e ciò è testimoniato dalla struttura elaborata delle loro tombe a cumulo e dai frequenti sacrifici dedicati ai morti. La morte di qualcuno è annunciata da lamenti e pianti dei familiari e dai canti funebri di parenti e amici. Il morto, lavato e cucito dentro un telo, è trasportato su una sorta di barella fino al sepolcro scavato in profondità nel terreno3. I parenti e gli amici seguono in corteo piangendo e recitando versetti del Corano. Il corpo è posto nella tomba, secondo la pratica islamica, con la testa rivolta verso la Mecca. Il tutto è ricoperto con un cumulo piramidale o cilindrico di pietre spesso adornato con rami e fronde di palme, o con un piccolo pezzo di stoffa rosso attaccato ad un ramo e posto sulla cima della tomba. Molto spesso su una delle pareti laterali della fossa si scava un’apertura dove è posto il cadavere. Nessun oggetto è sepolto con lui. A volte i cumuli di pietra sono sormontati da due pietre poste verticalmente; queste sono tombe di coloro che sono deceduti per cause violente. (Quando le pietre sono tre, la sepoltura è quella di una donna). Quelle ,invece, circondate da un muretto circolare di pietre e con un disegno più complicato sono le tombe di personaggi importanti, come gli sceicchi ad esempio. Spesso gli Afar costruiscono delle strutture di tombe (waidella) e monumenti funebri (das) estremamente belle, nelle quali a volte è sepolta un’intera famiglia. I monumenti (das) sono eretti nel periodo di tempo che va da uno a dodici mesi dal decesso e non contengono cadaveri. Presso questi edifici di pietra si praticano dei sacrifici animali in onore dei morti. Il tipo di tomba Afar è certamente anteriore all’influenza dell’Islam.
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NOTE  
[1] Danakil è il plurale arabo del termine afar dankali con cui si designa una tribu sita nel retroterra di Assab. Furono gli italiani durante il periodo di colonizzazione dell’Eritrea a diffondere l’uso di questo termine e di quello da esso derivato di Dancalia.
2 Questa pratica è legata al sostrato magico religioso degli Afar e alla credenza diffusa nella licantropia (o meglio ienocantropia), in afar butà, termine da cui deriva l’amarico buda con cui tradizionalmente si designa la categoria dei fabbri creduti in possesso di misteriosi poteri malefici e stregoneschi e capaci di trasformarsi in iene e altri rapaci notturni e di nutrirsi di carne umana.
Questa credenza da luogo anche a una forte discriminazione sociale tanto da far si che i fabbri costituiscano una sorta di casta disprezzata e emarginata dal resto della popolazione.
3 Nelle zone desertiche spesso la sepoltura avviene nello stesso luogo in cui sopraggiunge la morte dell’individuo. Presso molte tribù se una persona muore all’interno della sua capanna, si provvede a smontarla per effettuare la sepoltura sul luogo esatto del decesso.
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